Alla scoperta delle tradizioni montane della Val Biandino, in provincia di Lecco.
Un viaggio tra Natura, formaggi e antichi mestieri per riscoprire saperi e sapori di una volta
La prima volta che sentii parlare di malghe fu da mio nonno, seduto accanto alla stufa con i suoi occhi che brillavano di ricordi lontani. “Lassù tra le cime, c’è un mondo che pochi conoscono, dove l’erba è più verde del muschio e l’aria sa di latte buono e di stocchi di legno che bruciano nel camino”, mi disse.
È tempo di prendermi una pausa dalla routine quotidiana: spengo il computer, silenzio il cellulare e parto per andare “lassù” sui monti, a respirare aria pura e raggiungere gli alpeggi, incorniciati da scenografiche montagne, dove godere anche di un contatto con un affascinante mondo antico, fatto di malghe e casari, indispensabili, con la loro attività a tutelare le valli, ultime sentinelle dei nostri monti. Conoscerlo è anche occasione per compiere incantevoli trekking, acquistare buon formaggio, ma soprattutto scoprire modi di vita e sapori genuini. Il luogo che ho scelto è la Val Biandino, una sorta di attico sulla sottostante Valsassina, in provincia di Lecco, dove saperi e sapori si intrecciano in un territorio intimamente legato da secoli ai formaggi. “Questo legame deve servire da esempio, pensando anche ai nostri ragazzi, tentati a lasciare la valle per le città. Ma qui c’è storia e futuro, lavoro e identità, il primo passo per valorizzare la valle”, racconta Natalino Baruffaldi, alla quinta generazione di casari, che insieme a sua moglie Antonella trasformano in ottimo taleggio il latte delle loro sessanta vacche, tutte con un nome affettivo sin dalla nascita, che da giugno tornano ad animare gli alpeggi della Val Biandino, punteggiata di malghe, irrorata da torrenti cristallini, colorata dal verde nuovo e circondata da una cerchia di vette che culminano con il Pizzo Tre Signori (2.554 metri) ancora macchiato di neve.



Parto all’alba con lo zaino leggero, scarponi robusti e la mia inseparabile macchina fotografica. Lo sterrato è ampio e in leggera salita, attraversato di tanto in tanto da ruscelletti gelidi; a tratti dal bosco si intravedono radure dove, con un po’ di fortuna, è possibile spiare cervi e caprioli al pascolo. Dopo due ore si arriva al vasto altopiano e alla malga di Natalino, in legno scuro, col portone socchiuso cigolante per il vento, il tetto in pietra per resistere alla furia delle tempeste, e Jack il cane pastore che mi abbaia un paio di volte, più per dovere che per convinzione. Natalino mi invita a entrare e mi offre un buon caffè prima della mungitura mattutina. Le mucche, ancora infiacchite da mesi di stalla e di immobilità invernale, aspettano, raggruppate dai cani pastore, di essere munte, rinnovando così abitudini e regole che si perdono nella notte dei tempi. Il rito della preparazione e cagliatura del latte, la salatura, la stagionatura di due mesi e i tanti sacrifici oggi ridotti rispetto al passato, grazie alle comunicazioni più facili e comode, oltre all’aumento dei benefici economici. Quassù, a 1.450 metri d’altitudine, gli ingredienti per dar vita a un taleggio straordinario ci sono tutti: aria pura, acqua abbondante, erbe che non conoscono concimi e pesticidi chimici e il paziente lavoro di mani sapienti che ogni giorno ripetono gesti antichi.



Due volte al giorno si rinnova il rito della mungitura, di mattina presto e alle 14, quando la mandria, sazia di erba fresca, si riposa e i campanacci tacciono. È aiutato dai due figli cresciuti rotolando tra i fiori dei pascoli e giocando con le caprette, ma che da adulti hanno intrapreso un’altra attività, sempre pronti però ad appendere i vestiti cittadini per indossare la cappa bianca da formaggiaio, dando una mano in caso di necessità. Natalino raccoglie il latte ancora caldo per poi portarlo in malga dove, versato nell’enorme calderone di rame, ha inizio la magia che lo trasformerà in due mesi in ottimo taleggio. Quella notte ho dormito sotto una coperta di lana grezza, ascoltando il sibilo del vento tra le finestre: una sensazione primordiale ormai quasi del tutto dimenticata. Una brezza tiepida mattutina annuncia ormai l’imminente estate e, camminando lungo il torrente, incontro Natalino sdraiato sull’erba con accanto il suo fedele cane Jack, sempre a guardia della mandria, rilassato sull’erba bagnata. Fissando l’orizzonte verso la vetta acuminata del Pizzo Tre Signori, mi sussurra: “Qui il tempo cambia in un attimo. Le vedi quelle nuvole che si addensano sulle cime? Fra qualche minuto rovesceranno catinelle d’acqua; meglio che torni in malga”. Giusto il tempo di entrare nella malga, e si scatena un violento temporale con vento e saette.



Sono al sicuro. Seduto su una panca di legno scrivo gli appunti della giornata, mentre il fuoco del caminetto illumina sulle pareti vecchie foto in bianco e nero di fedeli cani, parenti, pastori e una tromba in ottone ossidato, che abbellisce un angolo della stanza. “Non bisogna produrre di più, ma produrre e vivere meglio”, mi confida Natalino alla fine di una giornata fatta di pochi privilegi e tanta fatica, aiutato da sua moglie Antonella, sempre con un sorriso che sembra non lasciarle mai il viso, mentre mette a stagionare i quadrati di taleggio che vendono a un’azienda giù in valle. “Quassù ne vediamo di persone che fuggono dall’inferno cittadino per rifugiarsi e ricaricarsi per pochi giorni. Sugli alpeggi vivono ancora la loro dimensione più autentica e umana, perché si respira aria buona, si fa del moto e perché si mangiano formaggi con l’aroma di certi fiori di montagna”. Tutte ottime ragioni per andare in malga!
