Natale all’insegna dell’avventura.

Dopo quasi cinquant’anni, da dicembre in prima serata sulla Rai, tornano le gesta eroiche del celebre pirata malese nato dalla penna di Emilio Salgari: un avventuriero da poltrona che esplorò il mondo senza mai lasciare casa, armato di atlanti, enciclopedie e di una fantasia infinita. In attesa del remake di una fiction tanto amata, partiamo per un viaggio nell’immaginario dello scrittore, che scambiò i viaggi reali con studi minuziosi, facendo sognare generazioni di italiani con i suoi mari e giungle misteriose.
Alzi la mano chi conosce la mussenda. E che dire dei paletuvieri o dei banian? Vogliamo citare il sagù, lo sciambaga o il nagatampo? Nomi, però, che molti hanno incontrato lungo le proprie letture, soprattutto giovanili; nomi con cui l’immaginazione del piccolo lettore si liberava e che avevano la funzione precisa di rendere vivide ed esotiche le scene di fantasia nei romanzi di Emilio Salgari, lo scrittore d’avventura made in Italy più letto tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo scorso. Ma non nomi inventati.

I romanzi del creatore di personaggi come Sandokan, Yanez e Tremal-Naik sono ambientati in terre lontane dall’Italia e dall’Europa: terre che Salgari (mi raccomando, l’accento sulla seconda “a”!) fece amare e sognare ai suoi giovani e meno giovani lettori, il Borneo dei pirati malesi, le Antille dei corsari, le foreste del Bengala, il Polo Sud, il Far West, l’Egitto (e c’è anche qualcosa sulla Sardegna). Eppure quel pirata pantofolaio che ha duellato a colpi di penna con l’immaginazione di innumerevoli schiere di lettori, incantandola e rapendola, a Mompracem (uno dei luoghi dell’originale geografia salgariana, ndr) o a Tortuga non c’è mai stato: la rafflesia non l’ha mai toccata, il durian non l’ha mai assaggiato.
“Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli”, ha detto Salgari, che in effetti ha viaggiato moltissimo restando fermo e, soprattutto, ha fatto viaggiare tanti, incollati ai suoi libri sdraiati su un letto o su una comoda poltrona. Con descrizioni come questa: “Era la sera del 4 settembre 1883. Il sole equatoriale, rosso rosso, scendeva rapidamente verso le aride e dirupate montagne di Mantara, illuminando vagamente le grandi foreste di palme e di tamarindi e le coniche capanne di Machmudiech, povero villaggio sudanese, situato sulla riva destra del maestoso Bahr-el-Abiad o Nilo Bianco, a meno di quaranta miglia a sud di Chartum”.
IMMAGINAZIONE E ABILITÀ
Ma come fece Salgari a descrivere con tale brillantezza e sostanziale fedeltà luoghi mai frequentati? Esperienze vissute? Dichiarò: “Ho solcato come ufficiale quasi interamente tutti gli oceani, spinto da una insaziabile curiosità e con la mira soprattutto di dare anche al mio Paese quella letteratura che aveva dato fama a Jules Verne e a tanti altri autori, e che ancora manca all’Italia. Per sette anni navigai, tutto osservando, studiando, facendo ovunque escursioni all’interno delle terre e delle isole, usando tutti i mezzi di locomozione possibili, su usi, costumi, sulla fauna e sulla flora dei vari Paesi. Dall’Equatore ai mari polari, tutto ho veduto e osservato”. Balla colossale, millanteria sfrontata, resa però plausibile dalle pagine dei suoi 200 romanzi e racconti d’avventure extra-occidentali, dove nulla trapela delle atmosfere austere di Torino, dove s’era trasferito, né della sua città d’origine, Verona. Valentìa di penna certamente, ma non solo.
LA TIGRE DELLA MALESIA

Il pirata malese Sandokan è senza dubbio la sua creatura più celebre, e le sue epiche imprese contro l’Impero coloniale britannico impersonato dallo spietato James Brooke, rajah di Sarawak, riecheggiano nelle vicende nazionali appena trascorse dell’eroe ribelle Garibaldi e dello spietato Generale austriaco Radetzky, trasferendole in lidi lontani dove può tirare in ballo i kriss, i babirussa, i ramsinga… Ma, come accennato, l’incanto che i lettori provano per i romanzi di Salgari non nasce solo dalla fervida fantasia dell’autore: egli si documentava in modo minuzioso e onnivoro su enciclopedie, giornali, atlanti, resoconti di viaggio ed esplorazioni, creando schede dettagliate su ogni luogo per far cadere, di tanto in tanto, come gocce di profumo, quei nomi così strani ed evocativi nelle sue pagine. E così la Natura, selvaggia e scatenata, è protagonista indiscussa della sua scrittura.
E se le gesta temerarie di Sandokan hanno avvinto anche un lettore-guerrigliero come Che Guevara, le descrizioni salgariane della

Natura, come quella che segue, hanno acceso nell’animo di un lettore-alfiere dell’ambientalismo come Fulco Pratesi la voglia di andare a vedere con i propri occhi quei luoghi: “È raro se scorgete un banian torreggiare al di sopra di quelle gigantesche canne, ancor più raro se v’accade di scorgere un gruppo di manghieri, di giacchieri o di nagassi sorgere fra i pantani, o se vi giunge all’olfatto il soave profumo del gelsomino, dello sciambaga o del mussenda, che spuntano timidamente fra quel caos di vegetali. È là, fra quegli ammassi di spine di bambù, fra quei pantani e quelle acque gialle, che si celano le tigri; è là che nuotano e spiano la preda orridi e giganteschi coccodrilli, sempre avidi di carne umana; è là che vaga il formidabile rinoceronte a cui tutto fa ombra e lo irrita alla pazzia; è là che vivono e muoiono le numerose varietà di serpenti indiani”. Così commenta Pratesi: “Quelli che Salgari chiama giacchieri sono i jackfruit (Artocarpus heterophyllus), un albero che produce grandi frutti gustosi, parente stretto dell’albero del pane. I manghieri sono invece i mangostani (Garcinia mangostana), piante arboree che producono anch’esse dei frutti eduli. I nagassi e la sciambaga sono arbusti dai fiori profumati, come la mussenda, tipici del sottobosco. Frutta a parte, pensate che tali orride descrizioni avrebbero potuto distogliermi dal sogno di andare a visitare, appena possibile, questo regno selvaggio di thugs e di cobra, di coccodrilli e di bambù spinosi? Naturalmente no. E così ci sono andato” (Fulco Pratesi, “Nella giungla di Sandokan”, Gallucci editore).
Di quei luoghi resta nella memoria, insieme ai personaggi epici che la frequentarono, il cacciatore di serpenti Tremal-Naik e il suo fedele servitore Kammamuri
IL RITORNO IN TV

La Tigre della Malesia è pronta a ruggire ancora. Nel 1976 la Rai mandò in onda lo sceneggiato “Sandokan” diretto da Sergio Sollima, e accadde qualcosa di magico: il Paese si fermò. L’interpretazione carismatica dell’attore indiano Kabir Bedi, unita a una produzione imponente per l’epoca, con location esotiche e scene d’azione memorabili, trasformò la serie in un fenomeno culturale senza precedenti. Ora il testimone passa a Can Yaman (nella foto), attore turco di fama internazionale. La nuova serie, prodotta da Lux Vide in collaborazione con Rai Fiction, non sarà un semplice remake, ma una rilettura del mito salgariano, pensata per un pubblico globale e abituato ai linguaggi della serialità contemporanea. Il nuovo Sandokan si propone come un personaggio più complesso e sfaccettato, un eroe moderno che combatte le sue battaglie in un mondo globalizzato.
